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Nel Giorno della Memoria il Comune di Montelupo ha svelato la pietra d’inciampo intitolata a Carlo Castellani, collocata in piazza San Rocco a Fibbiana, dove abitava il calciatore prima di venir arrestato con e deportato nei campi di sterminio.

Una piazza San Rocco gremita questa mattina per l’inaugurazione della prima pietra di inciampo posta a Montelupo e intitolata a Carlo Castellani. Tante le autorità presenti, ma molti di più erano i semplici cittadini e i ragazzi delle scuole e della scuola calcio del Montelupo. Le pietre, un piccolo blocco a forma di cubo di pietra (10×10×10 cm), ricoperto di una placca di ottone lucente, vogliono essere un inciampo emotivo e mentale, non fisico. Il loro obiettivo è mantenere viva la memoria delle vittime dell’ideologia nazi-fascista nel luogo simbolo della vita quotidiana – l’ultima loro casa o il luogo di lavoro scelti liberamente – invitando chi passa a riflettere su quanto accaduto in quel luogo e in quella data, per non dimenticare.

«In tutto erano 21 quelli che furono potati via – ha detto Franco Castellani, figlio di Carlo -, 16 non tornarono più. Fra loro c’era mio padre, che è morto senza essere previsto: nella lista che avevano repubblichini e carabinieri c’era il nome di mio nonno, David, che quell’8 marzo era a letto con la febbre. Pensando di essere tranquillo e di non avere nulla da temere si offrì mio padre al suo posto, rassicurato anche dalla guardia comunale, Orazio Nardini che gli disse che la mattinata successiva sarebbe tornato a casa. Mio padre tornò indietro, salutò mia madre dicendole “ci vediamo presto” e mi diede un pizzicotto, dicendomi di fare il bravo. Venne caricato su un camion pieno di gente che era già stata rastrellata. A Montelupo rimasero per un’intera mattinata in caserma, il maresciallo non si presentò e si fece fare un certificato medico. Da lì vennero trasportati a Firenze, dove alla stazione di Santa Maria Novella c’era un treno ad aspettarli, nessuna cuccetta, ma un cassone dove vennero stipate più o meno 60 persone. Il treno partì e dopo 3 giorni, senza mangiare né bere arrivarono a Mauthausen. Fecero l’appello e a ciascuna persona dettero un numero (lo conservo ancora); mio padre assieme ad Aldo Rovai furono trasferito dopo due giorni al sotto campo di Gusen. Lì lavoravano a diritto, il pasto consisteva in una brodaglia marrone che ricordava il caffè latte, un tozzo di pane, un po’ di margarina o di salame. Quello era il cibo per tutto il giorno. Dopo 3 mesi mio padre si ammalò di dissenteria, dimagriva a vista d’occhio. Il giorno prima che morisse Rovai andò a trovarlo, mio padre gli disse che stava male, ma non era agonizzante. L’indomani Aldo Rovai tornò nella baracca e gli dissero che Carlo Castellani non c’era più era già stato cremato. Questa è la storia di un giocatore, di un uomo finito per caso e per generosità in un campo di concentramento. Doveva essere mio nonno al suo posto, loro lo presero comunque e sapevano benissimo dove andava».

«L’inaugurazione della prima pietra d’inciampo – ha aggiunto il sindaco di Montelupo Paolo Masetti -, il ricordo di Carlo Castellani, la presenza dei ragazzi e dei dirigenti dell’USC Montelupo Calcio e delle scuole medie credo che siano il miglior modo di celebrare il Giorno della Memoria. I testimoni diretti stanno purtroppo svanendo, quanto accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale può sembrare un ricordo lontano ma purtroppo così non è. Basta solo ricordare che pochi giorni fa a Campiglia Marittima un ragazzo di 12 anni è stato aggredito perché ebreo da ragazze di poco più grandi, con epiteti vergognosi. Solo lavorando sul tema della memoria assieme ai ragazzi possiamo scongiurare il ripetersi di eventi simili. Purtroppo a causa del Covid da due anni non è possibile organizzare i viaggi della memoria, un’esperienza unica per gli adulti e per i ragazzi perché visitare i campi di concentramento vuol dire confrontarsi direttamente con le atrocità commesse in quei luoghi. Le pietre d’inciampo entrano da oggi nella vita di tutti i giorni e sono certo che saranno capaci di far riflettere e di suscitare interesse per le storie che stanno dietro ad ognuna di loro. La memoria è anche questo».

«A Montelupo – spiega Lorenzo Nesi, assessore alla memoria del comune di Montelupo Fiorentino – nessuno aveva partecipato agli scioperi del marzo 1944 che i nazisti volevano reprimere con la deportazione. Con l’inganno e senza nessuna colpa i fascisti locali strapparono ai propri cari nel pieno della notte semplici cittadini inermi: alcuni perché antifascisti, altri per antipatia, vendetta o invidia personali, altri ancora semplicemente per fare numero. Queste persone, non hanno potuto raccontare l’orrore dei campi e non hanno neppure una tomba su cui poter piangere e ricordare: le pietre d’inciampo vanno a colmare questa lacuna. Dopo Castellani proseguiremo con la posa delle pietre d’inciampo dei vetrai della Torre e finiremo l’8 marzo con quelle in centro storico»

Carlo Castellani era nato il 15 gennaio 1909 a Fibbiana. Il padre era proprietario di una segheria e questo consentì al giovane Carlo di potersi dedicare alla scuola (frequenta l’istituto dei Padri Scolopi) e alla propria passione, il calcio. I suoi meriti sportivi sono noti. A 17 anni era già un giocatore fortissimo della neonata società calcistica dell’Empoli. In pochi anni arriva a giocare a Livorno, poi a Viareggio e infine torna ad Empoli. In cinque stagioni Castellani ottiene risultati importanti, raggiungendo le 61 reti segnate, record rimasto intonso per oltre 70 anni nell’Empoli, e adesso detenuto da Francesco Tavano. La notte tra il 7 e l’8 marzo 1944 venne arrestato con l’inganno e deportato nei campi di sterminio. Quando bussarono alla porta cercavano suo padre David, non lui. Ma il padre era malato e pensando ad un controllo di routine andò lui al suo posto. Dalla caserma di Montelupo, fu trasportato a Firenze alle scuole Leopoldine e da lì a Mauthausen con un treno merci partito dall’attuale binario 6 della Stazione di Santa Maria Novella, dove morì di stenti e dissenteria nel sottocampo di Gusen nell’agosto del 1944. Il suo fisico atletico resistette 6 mesi agli stenti dei lavori forzati, il doppio rispetto ai 3 che i nazisti calcolavano per uccidere di lavoro i malcapitati.